Ciao Dado!
Ozzano dell'Emilia
L'importanza della maglia numero 10.
Chi ama e segue il calcio, chi ci ha giocato anche solo per una
brevissima parentesi della propria vita, indipendentemente dalle sue
doti, ha sognato di portarlo sulle spalle. Indossare quella casacca è
sempre stato il sogno di quasi tutti quelli che hanno preso a pallonate
la saracinesca del garage di casa o indossato gli scarpini chiodati per
scorrazzare su distese di erba o fangosi e spelacchiati campetti di
periferia.
Se la professione impone sincerità, distacco, obiettività, il cuore
li rinnega. Il calcio è cuore e sentimento e quindi per una volta
fatemeli mettere al bando. Perché per me (e non credo di essere il
solo) il calcio è incarnato soprattutto da chi indossa(va) la maglia
numero 10. Sinonimo di fantasia applicata alla pedata, di
imprevedibilità, di pause e lampi, di luci accese improvvisamente a
rischiarare il buio intorno, di ritmo sincopato e pennellate d’autore.
Regista, trequartista, centrocampista offensivo, seconda
punta, se proprio volete dargli una collocazione in campo fate voi… Sarebbe
un esercizio di stile fine a se stesso perché tentereste di etichettare ciò che
non può essere racchiuso in schemi o numeri prestabiliti, soffocare la vena
artistica e ingabbiare come hanno fatto tanti tecnici la magia e la follia, il
genio.
Per me la parola esatta, se devo usarne una, è fantasista.
Ricostruire la storia della maglia, e dei campioni che l’hanno
indossata è un’operazione storiografica che non voglio fare qui e ora.
Starei con gli occhi lucidi a raccontarvi le gesta di uomini dotati
di tecnica sopraffina e fantasia, ma anche coraggio (quando non vera e
propria sfrontatezza) e una notevole capacità di sopportazione del
dolore. Eh già, perché non è affatto semplice starsene nel mezzo delle
linee nemiche, da soli, a prendere botte e insulti cercando
disperatamente un’idea che si trasformi in capolavoro. La verità è che
ci vuole fegato a essere un fantasista. Sarebbe meglio dire ci voleva.
Già perché ora sono pochi, non nascono, trovano poco spazio nel football
imballato nella corsa, nella tattica, nel marketing dei tatuaggi.
Il nostro mondo fatto di calcio aveva dei confini stabiliti dai
poster che campeggiavano nella nostra stanzetta. Da quello di Baggio a
quello di Del Piero, passando per quello Totti, correvano pochi
centimetri e tutti e 3 guardavano la parete dove in versione ridotta
campeggiavano Maradona, Pelè, Platini, Zico e Savicevic. Sono state
un’infanzia e un’adolescenza felici quelle di chi si è goduto dal vivo o
in tv le parabole disegnate dai piedi fatati di questi e altri artisti.
Vivevamo un periodo di mutamenti profondi del mondo del calcio, ma non
immaginavamo che tutto sarebbe cambiato al punto da farli praticamente
estinguere.
Il 4-4-2, gli assurdi schemi disegnati alla lavagna, il
pressing, il fuorigioco esasperato, le tattiche sempre più difensivistiche
(anche quando venivano e vengono propagandate come all’avanguardia) hanno
finito per uccidere le farfalle che svolazzavano nella terra di nessuno, quella
“trequarti” dove il tempo scorreva ad una velocità diversa e aveva regole tutte
sue.
Nell’epoca della grande normalizzazione i trequartisti erano
considerati pericolosi rivoluzionari e nel calcio tutto velocità di oggi
per loro c’è poco spazio, a meno che non accettino di migrare in zone
meno calde del campo. Oggi i calciatori possono essere considerati alla
stregua di atleti olimpici che raramente ci concedono show di pura
tecnica. Ormai siamo più abituati a goderci lo spettacolo
dell’intensità, sulla quale la Premier League fonda il suo successo;
siamo abituati a vedere giocatori perfettamente indottrinati, in grado
di coprire il campo alla perfezione, di seguire gli schemi e i dettami.
Si è persa però la giocata tra le linee, si è detto addio all’imbucata
del trequartista, si è detto addio al colpo di genio estemporaneo del 10
che galleggia nella trequarti avversaria; si è detto addio alla
spasmodica ricerca del tocco di fino. Oggi si cerca la perfezione umana,
e non più la giocata divina. Il gioco ha assunto contorni diversi,
molto spesso migliori. Però il calcio di una volta, anche se più lento e
per certi versi meno spettacolare, portava con sé una magia diversa, la
magia del 10, quella espressa dalla fantasia al potere.
E no, non possiamo permetterci di non poter sognare più dei nuovi Maradona, Ronaldinho o Messi.